Radicamento, “società senza impresa” e tax rate. Sono queste le parole chiave che tracciano il confine tra applicazione e disapplicazione della normativa antielusiva sulle controllate estere. La circolare 51/E, diffusa oggi dall’Agenzia delle Entrate, fa luce sulla disciplina delle Cfc, modificata dal dl 78/2009, e si sofferma, inoltre, sulla disciplina degli utili “provenienti” da Paesi a fiscalità privilegiata e sulle regole che si applicano ai costi da “black list”.
Il radicamento sorpassa la geografia
Per escludere l’artificiosità della controllata estera il radicamento diventa un elemento essenziale. La struttura organizzativa, infatti, è una condizione necessaria ma non sufficiente per provare che la controllata svolge nel territorio a fiscalità privilegiata un’effettiva attività industriale o commerciale. Per radicamento, chiarisce la circolare, si intende un collegamento economico e sociale con il mercato dello Stato o territorio di insediamento. Per esempio, una percentuale di acquisti o di vendite sul mercato locale superiore al 50% costituisce elemento per la disapplicazione del regime Cfc.
Per le “società senza impresa” la prova raddoppia
In ogni caso, il radicamento non basta a vincere la presunzione del Fisco se i proventi della controllata provengono per più del 50% da attività finanziarie come, per esempio, titoli, partecipazioni, crediti o diritti immateriali. Per contrastare le pratiche elusive di delocalizzazione dei passive income, infatti, vengono tassati in Italia i redditi prodotti da “società senza impresa” – solo formalmente autonome – che operano in territori a fiscalità privilegiata e svolgono attività di sfruttamento passivo di asset in grado di produrre reddito.
Sede all’estero ok se la tassazione non cambia
In alternativa al principio del radicamento, ai fini della disapplicazione della disciplina Cfc, la circolare illustra il principio del tax rate, ossia della congruità del carico fiscale che grava sul gruppo societario in relazione ai redditi prodotti da una Cfc appartenente al gruppo. Se, infatti, l’imposizione complessiva sui redditi prodotti dalla Cfc è almeno pari all’aliquota nominale applicata in Italia, 27,5%, è implicitamente dimostrato che la localizzazione all’estero non ha finalità elusive.
Istanza di disapplicazione – le modalità
L’istanza per la disapplicazione della Cfc rule va inoltrata all’Agenzia delle Entrate preventivamente, cioè in tempo utile per ottenere la risposta prima della scadenza del termine ordinario di presentazione della dichiarazione dei redditi. Pertanto, se un contribuente con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare intende chiedere la disapplicazione della Cfc rule, con riferimento a una controllata estera per il periodo d’imposta 2010, la relativa istanza dovrà essere presentata entro il 1° giugno 2011, considerato che il termine ordinario per l’invio della relativa dichiarazione dei redditi scade il 30 settembre 2011.
Dividendi provenienti dai paradisi con il metodo “case by case”
La disciplina degli utili “provenienti” da società o enti localizzati in Paesi o territori aventi regime fiscale privilegiato prevede una deroga al regime di tassazione ordinario degli utili da partecipazione. Infatti, a prescindere dalla natura della partecipazione detenuta (qualificata o meno), sono assoggettati a imposizione integrale anziché parziale gli utili di provenienza “black list”. Per evitare artificiose triangolazioni che consentano di aggirare la norma, questo regime si applica anche quando a distribuire i dividendi “black list” sia una società conduit residente UE. In questa ipotesi, tuttavia, si adotta un approccio “case by case”. In effetti, ai fini della disapplicazione del regime di imposizione integrale dei dividendi distribuiti da una conduit figlia UE, “provenienti” in tutto o in parte da Paesi a fiscalità privilegiata, l’esame condotto dall’Amministrazione fiscale italiana non può essere limitato all’applicazione di criteri generali predeterminati, ma dovrà essere effettuato volta per volta. L’analisi specifica di ogni singolo caso si baserà, piuttosto che su semplici quantificazioni del carico fiscale subito dagli utili percepiti dalla “madre” italiana, sulla circostanza che la partecipazione nel soggetto localizzato nel tax haven non sia detenuta tramite la società figlia allo scopo di evitare artificiosamente che i redditi siano tassati in maniera congrua.
Definizioni ampie per i costi da “black list”
L’indeducibilità dei costi “black list” avviene per tutti i soggetti che esercitano nel territorio dello Stato un’attività d’impresa. Vi rientrano quindi non solo i vari tipi di società di capitali e di persone delineati nel codice civile, ma anche le imprese individuali e le stabili organizzazioni in Italia di società estere. Non sono escluse nemmeno le stabili organizzazioni in paradisi fiscali di società residenti nel territorio dello Stato, così come in Paesi o territori a fiscalità ordinaria. Stesso discorso per i professionisti, che vanno intesi non solo come i soggetti appartenenti alle professioni cosiddette ‘regolamentate’, ma tutti coloro che agiscono nell'esercizio di arti e professioni. Per “costo”, invece, si intende qualsiasi componente negativo di reddito derivante da transazioni commerciali poste in essere con fornitori “black list”.
Il testo della circolare 51/E è disponibile sul sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, www.agenziaentrate.gov.it.