Memorie gallipoline
Sopraggiunge a volte la nostalgia dei tempi lenti delle lunghe e monotone serate estive, attraverso cui gli umani sentimenti si intrecciavano durante le vacanze negli anni in cui vivevo nella mia famiglia di origine. Mia madre e mia nonna tenevano, come la maggioranza delle donne -molte a quei tempi erano casalinghe - i figli alle case estive. Mi sembra che sia mancato questo ai miei figli ed a mio marito, ne sono quasi certa, le lunghe vacanze - che se tutti potessero vivere - oggi meglio gioirebbero di sé stessi e delle proprie relazioni con il mondo e con il prossimo.
Il distacco estivo dalla casa invernale e dalle abitudini, che regolavano tutti gli altri mesi dell’anno, esigeva infatti una ricostruzione dei tempi di vita che ti portava ad organizzare i bisogni ed a viverli con un andamento lento, in cui si racchiudeva l’essenza stessa della vacanza.
Così erano vissuti più intensamente i rapporti tra i familiari: il mio fratellino, di cinque anni più piccolo, si intratteneva nei suoi giochi ed io, femmina, partecipavo, tra l’altro, alle pulizie domestiche, non pretese, ma svolte per amore emulativo di ruolo, per stare insieme e per sollevare la nonna da alcune incombenze che la portavano spesso ad avere poco tempo per sé stessa. Era lei la regina della casa estiva e mia madre era la principessa che attendeva impaziente il rientro del marito dal lavoro, per averlo al fianco, seppur mai del tutto soddisfatta, perché la stanchezza del lavoro bancario del coniuge seguiva gli entusiasmi della sposa che altresì trepidava per gioire delle briosità delle vacanze.
Il nonno anche d’estate, mentre noi villeggiavamo a Gallipoli, era spesso a Roma e, quando arrivava, per me era una gran gioia, seppur le sue nevrosi non potevano mai farti sapere di quale umore sarebbe stato. Eppure io ero un po’ anche la sua medicina e ne ero felice, perché mi raccontava a lungo di sé, del suo passato, del suo presente ed a me piaceva stare ad ascoltarlo, anche se dopo un po’ non riuscivo a seguirlo: vi ero abituata, era così sin da quando ero bambina. Con i nonni io non mi sentivo mai sola: i loro sorrisi, il loro calore davano a tutti noi familiari pieno significato al trascorrere degli istanti preziosi, di cui così io riuscivo ad avere ampia percezione assaporandone ogni loro minima sfaccettatura.
Così io guardavo il mondo, gli eventi e le persone con una lente capace di darti una sua più ampia e piena percezione, proprio quella che oggi mi sembra irrimediabilmente persa, per quei tempi che in passato una certa fascia di popolazione italiana, non proprio piccola, viveva, in larga parte per il motivo che le donne erano casalinghe e consentivano vacanze alle famiglie con tempi lunghi, oggi improponibili.
La venuta meno di questi stili di vita in un trentennio è come se avesse comportato la perdita di quei preziosi tempi lenti attraverso cui gli spiriti di ciascun componente della famiglia, ritrovandosi a stare più insieme, riuscivano a distaccarsi dagli impegni di tutto il resto dell’anno: in quel periodo si cresceva di più, proprio grazie al cambiamento che ti portava a confrontarti con i tuoi sogni e le tue aspettative in maniera più aperta e flessibile.
Si trattava di stili di vita resi possibili dalle donne che non lavoravano fuori casa, ma dedicavano il loro tempo alla cura della famiglia: un ruolo non remunerato, ma riconosciuto ed al quale si davano valore e meriti. Le famiglie, tra l’altro, vivevano vicine tra di loro, i nuclei di parenti si ritrovavano quotidianamente e soprattutto si stava vicino ai nonni. Si viveva, dunque, una condizione che adesso è tanto rara, così come anche è esiguo oggi il numero dei matrimoni e delle nascite.
Oggi, per stare al passo della società avanzata, occorre spesso vivere come isole di un grande mare terribilmente uguale, dove son perse le differenze, insieme alla gioia per lo stupore dell’incontro con l’altro.
Queste son le conseguenze della continua connessione con il proprio profilo sociale, soprattutto per i giovani che, di fronte alle novità del mondo reale, si ritrovano ad essere spesso indifferenti e ciechi.
D’altro canto l’incontro con l’altro da sempre, spesso, ha portato e porta guai: può arrivare un incontro estivo capace di scombinare tutto quel che, nel bene e nel male, si è fatto per un intero anno e così anche e sopratutto era oltre vent’anni fa.
Questa è la mia memoria con cui cerco di spiegare ove sia racchiuso il desiderio di trascorrere più tempo con la famiglia d’origine e con i luoghi noti ed amati, bisogni che mi sembra che oggi per molti si siano persi: il bisogno di vivere i luoghi amati è il bisogno di ritrovare se stessi ed i propri affetti, che fan parte del proprio vissuto, che son costitutivi della propria identità, in cui ci si ritrova, in cui ci si vuol sentire comunità, vivendo momenti dove anche e soprattutto è la quantità del tempo vissuto che dà il suo riconoscimento e la sua identità, frutto di appartenenza piena.
È lì che la memoria ha trovato pregnanza di sé, per cui non si vive come un eterno bambino, che è privo del superiore grado di amore che si riempie della memoria dell’altro, con il quale si vuol vivere a fianco, partecipando alla meraviglia del mondo, nel susseguirsi degli istanti che cadenzano il tempo e gli umani spiriti.
Mi rendo conto che le parole sono inadeguate a descrivere l’amore vissuto che non tutti conoscono e che annoia, quando si è nel correre di frenetici entusiasmi, propri dello stile con cui oggi soprattutto vengono vissuti il tempo di studio, di lavoro e di vacanza, oltre che dello stesso stare in famiglia.
Ma è così che riesco a riferire del mio amore per la famiglia, ricordando Gallipoli, dove da giovane ho trascorso di anno in anno le vacanze estive, imprimendo nel cuore, tra le tante innumerevoli immagini scolpite, le continue passeggiate dal lungomare - che allora era tanto silenzioso e spoglio ma non meno suggestivo - fino al centro storico e le serate trascorse con la nonna e la mamma sedute al balcone di casa a guardare il mare dal Bellavista vicino al Lido San Giovanni.